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giovedì 26 aprile 2012

I fatti nostri: La privacy ai tempi del web 2.0.

Orwell sarebbe molto soddisfatto di averci beccato alla grande, anche se con 30 anni di ritardo.
La domanda è: noi ne siamo altrettanto soddisfatti?

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Facciamo un passo indietro ed inquadriamo il problema alla luce degli ultimi avvenimenti:
Google ha appena lanciato il suo servizio di Cloud “Google Drive”, servizio fatto decisamente bene che altro non è che un’evoluzione del precedente Google Docs con supporto a diversi formati di file.

Il servizio di Mountain View consente la modifica online dei file e la condivisione con altri utenti come già faceva Docs, con la nuova possibilità di lavorare sui video.

Al di là di GDrive, il Cloud Computing è da un po’ di tempo la nuova realtà dello storage.

Come spesso accade in campo informatico e web in particolare, quello che al momento sembra assurdo nel giro di pochi anni è destinato a diventare ordinario. Sfido chiunque a non aver ritenuto risibile la prima proposta dei Chromebook (i laptop interamente web-based, senza disco rigido e con Chrome OS).

Qualche anno fa nessuno avrebbe pensato di affidare i propri dati ad un hosting web per poi usarli in maniera “cloud”. I problemi erano tanti: “cosa fare se non c’è la rete?”, “come la mettiamo con i tempi di accesso a file voluminosi?”, “i trasferimenti saranno sicuri su tutte le reti?”.

Molti di questi problemi sono stati superati nel modo tipico della net generation: non ci si pensa più.

  • A nessuno frega del problema che non ci sia linea, in fondo i Chromebook sono stati un flop e tutti abbiamo device con memoria interna: basta tenere sul terminale ciò che è necessario quando siamo in mobilità.
  • Come conseguenza del punto precedente, la velocità di download è meno pressante, e probabilmente faremo accesso alla nuvola solo sotto copertura wifi.
  • La sicurezza è un problema che non può essere risolto dall’utente, per cui dopo un po’ ci si convince che se il servizio funziona, deve essere sicuro.

Rimane però un problema: la privacy.

Il nuovo arrivato Drive riporta in auge l’argomento per via delle solite policy di Google:

“Quando carica o invia in altro modo dei contenuti ai nostri servizi, l’utente concede a Google (e a coloro che lavorano con Google) una licenza mondiale per utilizzare, ospitare, memorizzare, riprodurre, modificare, creare, opere derivate (come quelle derivanti da traduzioni, adattamenti o modifiche che apportiamo in modo che i contenuti dell’utente si adattino meglio ai nostri servizi), comunicare, pubblicare, rappresentare pubblicamente, visualizzare pubblicamente e distribuire tali contenuti.”

Come può un’utenza business accettare una tale licenza?

Non c’è dubbio che Google utilizzi queste prerogative per migliorare i servizi di pubblicità, ma è proprio necessario che leggano e traducano i miei documenti fornendoli anche a terze parti?

Al fine di inquadrare la filosofia privacy di Big G vorrei ricordare le dichiarazioni di Sergey Brin (co-fondatore di Google): in proposito Brin ha dichiarato che Facebook e Apple “uccidono il web” perché non consentono ad altri di accedere ai loro dati.

Appare evidente quindi che per lui l’approccio corretto è quello “zero privacy”.

Google ormai è entrata nelle nostre vite con servizi eccezionali (primi fra tutti Android e Gmail) e noi abbiamo abdicato alla nostra vita privata per poterne usufruire. I servizi si sono fatti sempre più completi e variegati, rendendoci di fatto meno percepibile che Google è e rimane una società che vive di pubblicità. È evidente che tanta grazia in qualche modo deve essere pagata, e noi la paghiamo con i nostri dati che consentono ads più precisi e con maggiori successi, quindi più appetibili sul mercato.

Un’ultima considerazione vorrei farla sul confronto tra Drive, Dropbox e Skydrive by Microsoft.

Credo che questo sia emblematico: nelle privacy policy dei due concorrenti di Drive è specificato che loro non diventeranno padroni di un bel niente e che non daranno nulla a nessuno se non per ciò che serve per il servizio o su nostra richiesta.

Andando nel particolare, in realtà i permessi sono abbastanza simili e d’altronde sono effettivamente necessari per consentire di salvare i nostri file sui loro server e condividerli con gli altri.

Quello che è diverso è lo stile:

Microsoft specifica “We also don't control, verify, or endorse the content that you and others make available on the service.” inoltre “You understand that Microsoft may need, and you hereby grant Microsoft the right, to use, modify, adapt, reproduce, distribute, and display content posted on the service solely to the extent necessary to provide the service.”.

Questo significa che MS non leggerà i nostri file e non userà il loro contenuto per fare pubblicità mirata ai nostri gusti. Ovviamente useranno per questo i cookies e i dati del nostro account, ma quello è scontato per ogni servizio di e-mail.

In sostanza la differenza è quella che passa tra una Web Company come Google ed una Software House come Microsoft. Per quanto negli anni ognuno sia entrato nel territorio dell’altro (MS con Bing e gli ads, Google con Android e Chrome OS), rimane una differenza di filosofia.

Potremmo dire che MS appartiene a quelle aziende della “vecchia scuola” quando gli utenti non avrebbero mai sottoscritto le odierne policy a cuor leggero.

Del resto i tempi cambiano. Orwell ne sarebbe felice, e voi?

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